Europa nata per evitare guerre vince il business delle armi
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William Domenichini  

In Europa vince il business delle armi

Nell’Europa nata per evitare le guerre vince il business delle armi, una riflessione di Giorgio Pagano, ex sindaco della Spezia, tratta da Citta della Spezia.

La spesa militare mondiale ha raggiunto nel 2022 la somma record di 2.240 miliardi di dollari complessivi, che corrisponde a una crescita del 3,7% in termini reali rispetto all’anno precedente. Lo evidenziano le stime diffuse dal SIPRI di Stoccolma, il prestigioso istituto internazionale indipendente di ricerche per la pace. In cifre si tratta di un aumento di ben 127 miliardi in un anno. Sono enormi risorse sottratte agli scopi indispensabili delle politiche pubbliche: la lotta al cambiamento climatico, la sanità, la scuola, l’occupazione e il lavoro…
Già cinquant’anni fa l’economista James ‘O Connor aveva descritto il passaggio dal welfare state al “warfare state”: dall’ economia sociale all’economia di guerra, e a una nuova classe dominante legata al business dell’industria delle armi.

I dati del SIPRI certificano come questo passaggio sia più che consolidato. La spesa militare statunitense è aumentata dello 0,7%, raggiungendo gli 877 miliardi di dollari: gli Stati Uniti restano di gran lunga al vertice della classifica, con il 39% della spesa militare globale (tre volte maggiore del Paese al secondo posto, la Cina). Pechino ha aumentato la propria spesa militare per il ventottesimo anno consecutivo (+4,2% a 292 miliardi di dollari) raggiungendo il 13% della quota globale. A causa del conflitto sul territorio ucraino iniziato con l’invasione decisa da Putin si stima che la spesa militare della Russia sia cresciuta del 9,2% nell’ultimo anno, raggiungendo gli 86,4 miliardi di dollari (terzo Stato al mondo). L’Ucraina è entrata per la prima volta nella top 15 (all’11° posto), a causa di un enorme aumento del 640% della propria spesa militare. Nel 2022 la spesa militare europea è aumentata del 13%, il più grande incremento annuale nella regione nel periodo successivo alla guerra fredda. La spesa totale di tutti i trenta membri della NATO ammonta a 1.232 miliardi di dollari nel 2022, pari al 55% della spesa complessiva.

L’Italia, in questo contesto, spende sempre più per acquistare e per produrre armi, e nel contempo esporta sempre più armi. Nel 2022 le autorizzazioni del governo all’export di materiali di armamento prodotti in Italia hanno raggiunto i 5 miliardi e 289 milioni di euro, il 14% in più rispetto al 2021. Al primo posto tra i destinatari la Turchia. Tra i primi venticinque destinatari ci sono l’Arabia Saudita (nono posto) e l’Egitto (sedicesimo posto), che Amnesty International definisce come Paesi in cui da anni continuano gravi violazioni dei diritti umani. Anche in Turchia le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. Eppure nel nostro Paese è in vigore una legge, la n. 185, che vieta l’export di armamenti “verso i Paesi in stato di conflitto armato” e “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”.

Ma tutto questo per la rassegna SeaFuture 2023, che si terrà nella nostra città, in Arsenale, dal 5 all’8 giugno, sembra non contare. SeaFuture è diventata una mostra militare-navale promossa dal comparto industriale-militare come piattaforma di affari per le aziende del settore. Non è più, come nei primi anni, una fiera internazionale dell’area mediterranea dedicata a innovazione, ricerca, sviluppo delle tecnologie civili inerenti al mare. Anche quest’anno ci saranno, per comprare armi, rappresentanti delle forze armate di Paesi belligeranti dell’Africa e del Medio Oriente, responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Ci sarà l’Arabia Saudita, dove nel 2022 sono triplicate le condanne capitali, dove sono quotidiani i processi iniqui e sommari, le discriminazioni contro le donne, le torture, lo sfruttamento del lavoro, gli abusi e i maltrattamenti sui migranti: il famoso “Rinascimento arabo” di cui parla un noto senatore della Repubblica italiana e consulente per milioni di euro della monarchia saudita. Ci sarà l’Egitto: abbiamo dimenticato Giulio Regeni e vendiamo sempre più armi al Paese dove Giulio è stato assassinato e dove si nega la giustizia. Ci saranno la Turchia, il Marocco, l’Algeria…

E’ tutto inaccettabile sul piano morale. La parola pace ha ormai perso ogni valore. Non si può parlare di pace mentre si avalla la guerra. Pace vuol dire pace.  Nel giorno della sua festa, il 9 maggio, l’Europa ha celebrato il suo suicidio: ha deciso di aiutare le imprese della difesa Ue ad aumentare la produzione di munizioni e missili, con fondi Ue e degli Stati membri, incluso il PNRR. L’economia di resilienza trasformata in economia di guerra: una inversione a U, che certifica che siamo coinvolti a pieno titolo nella guerra.

In questo modo si è aggravato ancor più il fallimento-tradimento politico di una comunità nata con la missione di impedire conflitti bellici nel vecchio continente. Questa Europa così irrilevante e così subalterna agli Stati Uniti e alla Nato favorisce il predominio degli Stati Uniti e della Cina nello scenario internazionale. Solo se si attivasse compatta per mediare a oltranza il certamente difficile accordo tra Russia e Ucraina, supportando l’impegno del Papa, l’Europa rispetterebbe la sua missione originaria, riscatterebbe la sua credibilità tra i cittadini europei e riconquisterebbe un ruolo nel mondo. Altrimenti, come destino politico, l’Europa è finita. Perché vuol dire che pensa solo alla volontà di trasformare la tragedia della guerra al suo interno in occasione di profitto per le industrie delle armi.

Ci hanno detto che bisognava inviare armi in Ucraina per poter trattare da una posizione di equilibrio. Ma, dopo un anno di guerra, chi ci governa ha il dovere di dirci quando arriva questo equilibrio. Ridotta l’iniziativa europea e occidentale alla sola dimensione militare, il condivisibile obbiettivo della difesa dell’Ucraina finisce con il trasformarsi nell’avventuristico obbiettivo della sconfitta totale della Russia: cioè di una potenza nucleare, che può essere sconfitta solo con l’arma nucleare. Ecco perché l’unico esito possibile della guerra è un compromesso. Se qualcuno facesse il primo passo, la storia gliene renderebbe merito.

In un documento pubblicato dal New York Times del 16 maggio, firmato da 15 esperti – analisti, docenti, ex diplomatici, ex consiglieri per la sicurezza nazionale e soprattutto ex militari di grado elevato – viene rivolto un pressante appello al Presidente degli Stati Uniti e al Congresso perché si ponga fine al più presto alla guerra con la diplomazia. I firmatari denunciano “il disastro assoluto della guerra russo-ucraina”, con “centinaia di migliaia di persone uccise o ferite, milioni di sfollati, incalcolabili distruzioni dell’ambiente e dell’economia” e il rischio di “devastazioni esponenzialmente più grandi dal momento che le potenze si avvicinano a una guerra aperta”.

Ricordano l’osservazione di John F. Kennedy, 60 anni fa: “Le potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva”.

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L'ultimo arrivato!

Questo bellissimo saggio ci racconta come la cultura di guerra e di morte genera gli stessi mostri in tutto il Paese: pessimismo, obbedienza, passività, senso di sconfitta, conformismo, opportunismo, clientelismo. Figli di un dio minore, vittime e colpevoli allo stesso tempo dei propri mali. Politici e rappresentanti istituzionali fotocopia. Iene e sciacalli ai banchetti delle opere pubbliche e gattopardi perché cambi tutto purché non cambi nulla.

Lo scenario che ci delinea e ci offre queste pagine che seguiranno è certamente doloroso, tragico, inquietante, ma in questo suo coraggioso e generoso atto di denuncia traspare sempre lo smisurato amore per La Spezia, per il suo Golfo, il suo Mare. Pagine e immagini che feriscono il cuore ma in cui respiriamo ancora speranza ed utopia. Che un’altra città sia davvero ancora possibile, viva, libera, aperta, felice. Un laboratorio di Pace.

Antonio Mazzeo

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