Ambiente Analisi Global
William Domenichini  

Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole

Se ci domandiamo dove finiscono i relitti della nostra Marina militare, per amor patrio ci dovremmo appellare al sommo poeta: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. Non via aspettate un racconto come molti che ho scritto. Questo pezzo di storia lacera, almeno chi ha una coscienza. Squarta l’anima, di chi ha ancora un briciolo di umanità. Incute orrore, nell’ombra che si allunga sulla salute del pianeta in cui viviamo. Questa storia è un viaggio nell’inferno, quello che alimentiamo noi.

Iniziamo da una cosa molto semplice. Quando un oggetto non ci serve più diventa, banalmente, un rifiuto. E voi direte, che scoperta. Una volta che esce dall’uscio di casa, non è più un problema nostro, così l’ipocrisia diventa il metro della nostra inciviltà. Pensate se, per esempio, non ci si ponessimo il problema di avere rifiuti in casa propria per decenni. Fantasia? Provocazione? Ne l’una, ne l’altra. Una, delle tanti, tristi realtà legate alla gestione delle aree militari. Il caso spezzino appare da manuale. Basta una spolverata di retorica per far svanire la realtà? Come se mettessimo dello zucchero a velo per decorare una torta marcescente ed imputridita, convincendoci che si tratta di una prelibatezza.

Lasciamo stare, per questa volta, discariche sotto sequestro, con vista mare. Non dedichiamo attenzione a tonnellate di rifiuti tossici stivati a pochi metri dal mare. Ignoriamo tonnellate di amianto sparse ovunque in 900 mila metri quadrati di aree militari. Dimentichiamoci di emissioni atmosferiche o elettromagnetiche delle unità in banchina. Facciamo finta che le operazioni di bunkeraggio non abbiano episodi di sversamento di carburante a mare. Torniamo a parlare di relitti.

Dopo decenni, salvate dal rischio affondamento, la Marina militare ha avuto il buon gusto di togliere dalle bitte un bel po’ di tonnellaggio di relitti in disarmo. Non fraintendetemi, si tratta di una buona notizia. Basti pensare alle condizioni in cui versavano quei navigli per comprendere l’impatto che hanno avuto con l’ambiente marino. Tralasciamo ciò che resta ancora a marcire sulle banchine ed agli ormeggi. Ça va sans dire, resta dove sta, in attesa che le ossidoriduzioni compiano i loro cicli.

All’alba della primavera del presenta A.D., le fregate missilistiche Bersagliere F 584, (2.525 tonnellate, in disarmo dal 2018) e Maestrale F 570 (3.040 tonnellate, in disarmo dal 2015), la fregata antisommergibili Scirocco F 573, (3.188.74 tonnellate in disarmo dal 2020) ed il pattugliatore di squadra Artigliere F 582, (2.525 tonnellate in disarmo dal 2013), prendono il largo verso la demolizione. Un mese più tardi tocca a tre sommergibili: Carlo Fecia di Cossato (S 519, 1.456 tonnellate, in disarmo dal 31 marzo 2005), Leonardo da Vinci (S 520, 1.461 tonnellate in disarmo il 30 giugno 2010) ed il Guglielmo Marconi (S 521, 1.630 tonnellate, abbandonato dal 1º ottobre 2003).

Si tratta di oltre 15.000 tonnellate di acciaio, ruggine e vernici. Con tutta probabilità mettiamoci anche residui di carburante, amianto, PCB ed altre sostanze utili al mantenimento delle biodiversità. Qualcuno penserà ad un’ironia fuori luogo. Tutt’altro. Quei relitti sono stati lasciati a marcire alle bitte della base navale spezzina, alcune per qualche anno, altre per decenni, come dimostrano le condizioni in cui sono apparse al momento del commovente commiato. Eppure, stante i media, la partenza di quei disastri ecologici investiva l’opinione pubblica di marea di retorica celebrativa. Schiere di commilitoni in lacrime per il trapasso dei rottami su cui trascorsero il servizio militare. Fiumi di gruppi social lacerati da foto di naje passate sui ponti di unità navali, poi lasciate marcire per lustri nelle acque spezzine.

Tanti sentimenti, legittimi, che spariscono d’incanto quando l’orizzonte ingoia la nave bacino Seaway Albatros, diretta in Turchia verso le demolizioni. Già, perché lo smaltimento dei sette “galleggianti ex unità navali della Marina Militare“ ha fruttato, alle casse dell’AID, Agenzia Industrie Difesa, l’ente di Diritto Pubblico, vigilato dal Ministro della Difesa e costituita nel 2001, per gestire con “approccio industriale e commerciale” e condurre al pareggio di bilancio le Unità Produttive ad essa affidate con la riorganizzazione dell’area tecnico-industriale del Ministero della Difesa. L’ente, diretto da tal Nicola La Torre, per sette rottami ha incassato 1.679.144 €, sborsati dai cantieri turchi Ege Çelik di Aliağa, che si sono aggiudicati l’asta per la vendita.

Tuttavia resta avvolto nel mistero come mai l’Agenzia Industria Difesa bandisca la demolizione di sette relitti della Marina militare e parallelamente la direzione Marinarsen La Spezia faccia la stessa cosa per una di esse, ossia la Scirocco, pubblicando a suo tempo la richiesta di offerta, che porta la firma del direttore, quel contrammiraglio Scorsone che vede il futuro blu. Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare.

Al netto delle possibilità perdute, ossia di progetti lasciati macerare alle bitte come le unità navali stesse, la darsena Duca degli Abruzzi (e le acque del golfo che fu dei poeti) si liberano di un ulteriore criticità ambientale. Ma come spesso accade, in un mondo al contrario (mi perdonerà il generale Vannacci), è che la questione ambientale è stata semplicemente traslata. Insomma non è più affare nostro, in termini di prossimità, ma resta un affare nostre in termini di inquinamento globale.

Ma veniamo al quid. Perché far fare 1200 miglia nautiche, miglio più, miglio meno, a sette relitti, per demolirli? Qualcuno potrebbe dire perché solo a quella distanza si è trovato un’acquirente in grado di sborsare 1,7 milioni di euro demolirli? Possibile, per quanto improbabile. E se la ragione della spedizione turca fosse tutta nella natura delle operazioni di demolizione? In effetti in Arsenale alla Spezia, salvo il fatto che quando si è tentato di demolire una banale bettolina rasentando le più banali norme, quei rompicoglioni dei MuratiVivi han preso carta e penna ed esposto alla Procura le loro perplessità. Allora marcia indietro, ci hanno provato, non senza qualche scocciatura, nei bacini di carenaggio, onore e vanto dell’ex fabbrica, ma anche boccone appetitoso per i privati che stanno allungando i loro interessi.

Ecco che spunta la pista turca, i cantieri di Aliağa. Cacciano quattrini, poi quel che fanno, durante la demolizione e dei materiali di risulta, in fondo, non è più affare nostro.

Non le manda a dire Greenpeace, che svela dove l’Italia mandi a smantellare le sue navi della Marina Militare. Si tratta di uno dei cantieri noti per la mancanza di conformità con la normativa UE, come riportato nel rapporto della ONG Shipbreaking Platform, “Ship Recycling in Turkey“. Stante il rapporto, cantieri di riciclaggio di Aliağa sono esentati dall’obbligo di valutazione di impatto ambientale. In questo far west a buon mercato i report ambientali sono conseguenti: alti livelli di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua.

Arsenico, piombo e altri metalli pesanti, idrocarburi poliaromatici, ossido di tributile e dieldrina. I rifiuti solidi e liquidi derivati dal petrolio, provenienti dalla sentina delle navi, dall’acqua, dalla zavorra e dai fanghi, contribuiscono all’inquinamento costiero. Poi ci sono le vernici delle carene, che contaminano causa delle alte concentrazioni di piombo. Senza contare l’inquinamento atmosferico da particolato e metalli pesanti, evidentemente dovuto alle operazioni di demolizione delle navi. Sembra di trovarsi di fronte un Campo in ferro, ma in salsa turca.

Viste le caratterizzazioni dei siti militari spezzini, per l’appunto dal Campo in ferro in giù, i turchi han poco da star tranquilli su cosa viene consegnato. Ma in fondo, le coscienze dei patrioti tricolore possono dormire sonni tranquilli. Un po’ meno chi una coscienza la possiede, o la esercita. Perché se è sbagliato appestare la salute italica, per quale motivo dovremmo gioire nello sbarazzarci di rottami nocivi, avvelenando qualche altra parte del mondo?

Probabilmente 1,6 milioni di euro di incasso sono sufficienti a dimenticare l’impatto di nocività e l’impronta ambientale della demolizione delle unità navali della flotta militare italiana. Tuttavia, seppur dovrebbe far riflettere, non si tratta solo di una questione “ambientale”, anche se basterebbe per porsi almeno delle domande. Dalle gravi irregolarità nella gestione dell’amianto, alle condizioni di salute e di sicurezza dei lavoratori è un climax di orrori, sui quali le nostre coscienze dovrebbero riflettere.

Il rapporto 2023 “The Toxic Tide è un calcio nello stomaco. Sulle spiagge dell’Asia meridionale, i lavoratori migranti non qualificati, compresi i bambini, verrebbero impiegati a migliaia per smontare manualmente le imbarcazioni. Con dispositivi antinfortunistica speciali, come berretti da baseball ed infradito, o stivali se sono fortunati, i giovani operai tagliano fili, tubi e sfondano gli scafi delle navi con la fiamma ossidrica. Le esplosioni di gas, il crollo di massicce parti in acciaio e le cadute dall’alto causano la morte di numerosi lavoratori ogni anno. Le statistiche dei cantieri di demolizione navale dell’asia meridionale, dal 2009, hanno registrato ufficialmente 447 decessi durante il lavoro. Praticamente 30 persone all’anno. Sempre ufficialmente.

Il rischio di sviluppare una malattia professionale mortale è elevato in quanto i lavoratori non dispongono di attrezzature respiratorie adeguate per proteggersi dai numerosi fumi e materiali tossici rilasciati durante le operazioni di taglio e pulizia. Nella maggior parte dei casi, le sostanze pericolose non vengono nemmeno identificate e quindi danneggiano inconsapevolmente i lavoratori. Come nel caso di contatto con fibre di amianto.

Noi gli abbiamo appena consegnato sette unità navali. Qualcuno penserà che si tratti di una scelta del momento. Peccato che la Vittorio Veneto, già ammiraglia della flotta militare italiana, dopo 13 anni di disarmo nelle acque tarantine, fu demolita nelle spiagge turche. Così come, nell’agosto 2021, quattro unità dismesse della Marina Militare, di stanza ad Augusta, lasciarono la Sicilia dirette in Turchia a bordo della nave autoaffondante Yacht Express. Si trattò dell’ex nave cisterna Brenta (A 5358), del rimorchiatore d’altura Atlante (A 5317) e dei sommergibile Attilio Bagnolini (S 505) e Lazzaro Mocenigo (S 514).

Nel mentre, come ricordato in altri frangenti, la Marina militare italiana declina così la sua giusta e doverosa attenzione all’ambiente che ci circonda.

La Marina Militare ha da sempre avuto attenzione al rispetto dell’ambiente e alla diffusione di un’educazione marinara volta al rispetto e alla valorizzazione del mare, come importante risorsa per un paese peninsulare come l’Italia e palestra naturale di vita. Nell’ambito di tale attenzione la Marina mette a disposizione le sue realtà “più naturalmente marinare” quali le barche a vela e le navi scuola per il sostegno delle attività di promozione e diffusione di tali importanti tematiche da parte delle associazioni ambientaliste interessate.

Marina militare italiana
(Policy per l’ambiente)

A voi, mie 25 lettori, le riflessioni che ne conseguono. Dai concetti di sostenibilità espressi dalle forze armate alle lacrimevoli titolazioni sulle “evoluzioni nel golfo per l’ultimo viaggio“. Confesso che, forse per la prima volta, approfondire, ricercare, leggere e documentarsi, per poi riscrivere e raccontare, non è mai stato così doloroso come in questo caso, ad un passo dall’inferno in cui viviamo, ma che quotidianamente evitiamo di guardare.

O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.

Dante Alighieri
Inferno, Canto XXVI, 112-1220

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Natalino
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3 mesi fa

La cosiddetta globalizzazione, non porta con sé solo i buoni scambi culturali, di cui molti ne hanno terrore, e quindi con enorme difficoltà inclusiva,, mentre di contro favorisce in modo più capillare e pregnante, il pensiero che il denaro ed il comando siano di per sé valori assoluti e da perseguire. Già in piccole realtà avere anche una sola briciola di comando che ti possa porre un gradino sopra gli altri, e motivo di vanto e di orgoglio, personale, che fa superare le negatività sociali che il ruolo ti impone.
Se moltiplichiamo tale condizione a livelli superiori, è globali, é facile comprendere quanto il capitale sia gestore incontrastato di ogni nefandezza, a cui personaggi senza scrupoli e servi devoti porgono omaggio e servilismo totale. Tutto sarà niente, guerre, fame, povertà, sfruttamento e quant’altro.

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cosiddetta globalizzazione, non porta con sé solo i buoni scambi culturali, di cui molti ne hanno terrore, e quindi con enorme difficoltà inclusiva,, mentre di contro favorisce in modo più capillare e pregnante, il pensiero che il denaro ed il comando siano di per sé valori assoluti e da perseguire. Già in piccole realtà avere anche una sola briciola di comando che ti possa porre un gradino sopra gli altri, e motivo di vanto e di orgoglio, personale, che fa superare le negatività sociali che il ruolo ti impone. Se moltiplichiamo tale condizione a livelli superiori, è globali, é facile comprendere quanto il capitale sia gestore incontrastato di ogni nefandezza, a cui personaggi senza scrupoli e servi devoti porgono omaggio e servilismo totale. Tutto sarà niente, guerre, fame, povertà, sfruttamento e quant'altro.
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L'ultimo arrivato!

Questo bellissimo saggio ci racconta come la cultura di guerra e di morte genera gli stessi mostri in tutto il Paese: pessimismo, obbedienza, passività, senso di sconfitta, conformismo, opportunismo, clientelismo. Figli di un dio minore, vittime e colpevoli allo stesso tempo dei propri mali. Politici e rappresentanti istituzionali fotocopia. Iene e sciacalli ai banchetti delle opere pubbliche e gattopardi perché cambi tutto purché non cambi nulla.

Lo scenario che ci delinea e ci offre queste pagine che seguiranno è certamente doloroso, tragico, inquietante, ma in questo suo coraggioso e generoso atto di denuncia traspare sempre lo smisurato amore per La Spezia, per il suo Golfo, il suo Mare. Pagine e immagini che feriscono il cuore ma in cui respiriamo ancora speranza ed utopia. Che un’altra città sia davvero ancora possibile, viva, libera, aperta, felice. Un laboratorio di Pace.

Antonio Mazzeo

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