E' morto l'amico di Mubarak
Opinioni
William Domenichini  

Chi gode muore e chi patisce stenta a morire

La dipartita di Silvio Berlusconi offre spunti di riflessione, critici ed autocritici, a prescindere dall’adagio per cui chi gode muore e chi patisce stenta a morire. Ê impossibile chiudere il coperchio sepolcrale a questi ultimi 40 anni di storia del Bel Paese, come avverrà a breve nel mausoleo di Cascella. Così, di botto.

Fa un certo effetto leggere il buonismo imperante, l’italianico e melanconico lavaggio dei peccati che la morte porta con se. Santo subito? Perché pare che il giudizio su cosa e come sia stato Berlusconi in vita, trascenda il trapasso. Tra i tanti, c’è chi si scomoda a ricordarci, che “la morte di Berlusconi non deve farvi cadere nell’odio e nei festeggiamenti per la sua dipartita, noi non siamo come loro che odiano per partito preso. Noi restiamo umani“. Eppure “Restiamo umani” era la chiusa degli articoli con cui Vittorio Arrigoni, raccontava la tragedia del popolo palestinese. Difficile trovare attinenze tra l’espressione di Vik e la dipartita dell’autosospeso cavaliere. Ma andiamo avanti.

Berlusconi ha avuto il merito di scoperchiare i più bassi istinti di un popolo, senza troppi veli, ma di farne una merce prima e consenso poi. Ha avuto la capacità di dettare l’agenda, di spostare l’attenzione dai problemi strutturali e complessi al voluttuario ed effimero, facendone sostanza, anzi struttura. Capì, con largo anticipo, che i suoi avversari politici, tali non erano, erano competitori nella corsa al potere. Così, dall’alto della sua esperienza commerciale, è riuscito a trascinare l’attenzione sul personale, offuscando prima ed annichilendo poi il politico.

Meretrici di Stato, evasioni, corruzioni, gaffe internazionali, incidenti diplomatici. Putiniano della prima ora senza mai perdere la sponda atlantica, edonista-egocentrista ossessivo compulsivo, per 20 anni ha tutelato i propri affari, come avrebbe fatto un valvassore qualunque 1000 anni prima di lui. Lo ha fatto concedendo distrazioni al popolo che lo acclamava, dall’acquisto di un nuovo calciatore o al sollevamento di un trofeo, contornandosi di un harem, di un gineceo tutt’altro che riservato, ma platealmente reso noto, che ha costruito un immaginifico esempio a cui tendere: eternamente giovane, eternamente circondato da concubine accondiscendenti e pronte a soddisfare i ricordi di pulsioni che furono, e di cortigiani pronti a lanciarsi nelle fiamme per il proprio protettore.

Berlusconi è stato il genio che ha condotto molti ad inseguire la banalità delle regole, trascurando il terreno politico. Lui sfornava la legge Biagi quando chi lo avrebbe dovuto avversare attuava la legge Treu, per poi seguirlo con il Job Act. Sforna la legge Bossi-Fini e chi lo avrebbe dovuto avversare partoriva il decreto Minniti. Se durante il suo secondo governo, al G8 di Genova ci fu la macelleria messicana della Diaz, di Bolzaneto e la morte di Carlo Giuliani, qualche mese prima, a Napoli, c’era un governo di un altro colore, e le violenze delle forze dell’ordine nei confronti di pacifici manifestanti non furono trascurabili. Teorizzava la privatizzazione dei servizi, i suoi avversari la attuavano. Una visione economica da “finanza creativa”? Alle larghe intese il compito di vessare i lavorator*. Lui toglieva l’ICI e l’elenco sarebbe interminabile, tanto delle vaccate berlusconiane, quanto delle rincorse che gli ha fatto il Pd&C.

Ci ha distratti per 20 anni con il protettorato della nipote di Mubarak, di cui era grande amico, creando ed utilizzando l’artificio dell’annuncio, come atto politico. Quel che diceva era già assunto come decreto, legge e altri vecchiumi da burocrati. Colpi di scena apocalittici, da annunci su predellini a pubblicazioni diffuse via posta in ogni angolo del paese, passando per contratti firmati su emittenti pubbliche, gestati in un contesto culturale e sociale sempre più basato sul modello Mulino Bianco. La sua versione anni ’80 del “produci, consuma e crepa” ha subito una riedizione pubblicitaria, con il sorriso sulle labbra: produci, consuma, sogna. Perché lui rappresentava l’Italia che ama, contro l’Italia che odia. D’altronde, lui, era così:

Ho troppa stima dell’intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare facendo il proprio disinteresse.

Lo so, mi dovrei contenere. Ma d’altronde sono caduto nel tranello anche io, scrivendo questo post. Un senatore decaduto, che ci ha condotto a manifestare aspramente contro di lui, assai meno vigorosamente contro le sue politiche. Alla fine ha vinto, su tutta la linea. Banalmente, con la valanga di messaggi di stima dei suoi avversari, in un  politically correct nauseabondo e palesemente bigotto. Ha preparato il terreno in 20 anni di mercificazione di qualsiasi cosa, in quella Milano da bere dilagata in un paese da yuppies, anche se con le pezze al culo, un contratto somministrato e l’impossibilità economica di uscir da casa dei genitori, mazziati come bamboccioni.

Un generatore di sogni seriale mai realizzati, anzi. Presto o tardi si trasformarono in incubi, ma per colpa dei comunisti. In fondo, diciamocelo, ha rappresentato quell’arte di arrangiarsi, di fottere il prossimo, di spintonare per i propri interessi a qualsiasi costo, che fa tanto anima nazionale. Da qui la grande infatuazione popolare. Ha saputo fare quel che altri non sono più in grado di fare, da decenni, parlare, anzi essere in sintonia con le masse popolari, nella sua sintonia. Gli ha dato un orizzonte (a)morale raccontando che Libertà è fare ciò che si vuole, cullando la speranza di diventare tutti come lui: soldi, donne (per i maschi) o sue donne (per le femmine) e successo. Hai problemi di sicurezza? Assumi uno stalliere mafioso. Ritieni le tasse troppo alte? Non le paghi. I giudici non ti danno ragione? Sono comunisti. Di contro chi ha finto di avversarlo non c’è stato nemmeno in grado di difendere uno straccio di potere d’acquisto di stipendi, salari, pensioni o banalmente costruire un modello che fosse realmente alternativo alla visione berlusconiana, al netto giudiziario. Capotto!

Così le ceneri del berlusconismo non spariranno con lui, perché sono “patrimonio” del paese, un legame che sigilla l’approssimazione usa&getta ai suoi presunti avversari, e non ce ne libereremo chiudendo il sepolcro di Cascella. E allora chiudiamo questa parentesi come solo un grande autore poteva fare, perché di fronte alla dipartita di Berlusconi è indecente appellarsi al restareumani, una risata ce la possiamo concedere, nel tentativo di seppellirlo e senza far assurgere Silvio alla statura del Perozzi, ma sulla sua falsa riga:

Come vorrei che venisse fuori un funeralone da fargli pigliare un colpo a tuttì! Migliaia di persone, tutte a piangere, e corone, telegrammi, bande, bandiere, puttane, militari…


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L'ultimo arrivato!

Questo bellissimo saggio ci racconta come la cultura di guerra e di morte genera gli stessi mostri in tutto il Paese: pessimismo, obbedienza, passività, senso di sconfitta, conformismo, opportunismo, clientelismo. Figli di un dio minore, vittime e colpevoli allo stesso tempo dei propri mali. Politici e rappresentanti istituzionali fotocopia. Iene e sciacalli ai banchetti delle opere pubbliche e gattopardi perché cambi tutto purché non cambi nulla.

Lo scenario che ci delinea e ci offre queste pagine che seguiranno è certamente doloroso, tragico, inquietante, ma in questo suo coraggioso e generoso atto di denuncia traspare sempre lo smisurato amore per La Spezia, per il suo Golfo, il suo Mare. Pagine e immagini che feriscono il cuore ma in cui respiriamo ancora speranza ed utopia. Che un’altra città sia davvero ancora possibile, viva, libera, aperta, felice. Un laboratorio di Pace.

Antonio Mazzeo

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