Riparliamo pure della «perfida Albione»
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William Domenichini  

Riparliamo pure della «perfida Albione»

Domenica 20 ottobre 1985, sulle colonne de L’Unità compariva in prima pagina una lettera dal titolo: Riparliamo pure della «perfida Albione». La firma della lettera era di un poeta, un intellettuale, nato in una casa di fronte ad una meravigliosa baia, quella di Le Grazie, nel golfo (neanche a dirlo) dei poeti. Giovanni Giudici. Sulle sponde della patria natia, molti si domandano, chi fosse costui. Oltre all’immenso patrimonio poetico e letterario, Giudici lasciò traccia di se come essere politico.

Una traccia che è stata delineata molto bene nell’iniziativa di Posidonia, in occasione dell’iniziativa che celebrava la nascita del poeta. La cura con cui Paolo Magliani ha raccontato la spinta politica di Giudici è stata stimolante. Gli spunti del prof. Di Alesio hanno suscitato grande interesse. I tratti che ne sono emersi rievocano la solitudine di un intellettuale, capace di fini analisi del suo tempo, perennemente inascoltate dalla classe dirigente. Così si struttura il paradosso di un contesto che persevera nelle criticità con cui vive da 150 anni. Tra le tante, il colonialismo centralista, di cui il comparto militare ne è un aspetto evidente (o almeno dovrebbe essere tale). Ma non un “semplice” intellettuale, un uomo che ha tradotto il suo pensiero e le sue idee portandole nel consiglio comunale, come indipendente nelle fila del PCI, alla Spezia.

Questa lettera al direttore (all’epoca Emanuele Macaluso), pubblicata sull’organo di stampa del partito comunista, è emblematica. Riparliamo pure della «perfida Albione». Buona lettura.

Caro direttore, in una delle cronache (quella di Gian Paolo Pansa) che i quotidiani di venerdì dedicavano alla crisi di governo provocata dalle dimissioni dei ministri del PRI ho letto con qualche perplessità una dichiarazione dell’on. Giorgio La Malfa. Al giornalista che gli faceva notare come la linea di autonomia tenuta dal governo italiano nei confronti degli Stati Uniti e delle loro pretese incontrasse e riscuotesse le più vaste simpatie dell’opinione pubblica, l’autorevole parlamentare ha risposto: «Anche nel 1935 ci fu lo scatto di molti giovani contro le inique sanzioni, contro la perfida Albione, Ma la ragione da che parte stava?»…

L’ultima frase con punto interrogativo avrebbe dovuto essere, secondo le intenzioni di chi la pronunciava, una di quelle domande che vengono dette retoriche, appunto perché la risposta si sa già e non è minimamente da mettersi in discussione. Infatti secondo l’on. La Malfa (che al tempo delle «inique sanzioni» si trovava anagraficamente a quota «meno quattro» poiché quattro erano in effetti gli anni che nel 1935 gli manca vano per aprire gli occhi alla luce del mondo) non avrebbero dovuto esserci dubbi che la ragione fosse dalla parte di quei luminosi fari di anticolonialismo che erano all’epoca i governi di Gran Bretagna e di Francia.

Io non vorrei (data anche la mia modesta competenza in politica) intentare qui una specie di processo alla storia; però resta il fatto che, alla lettura di quelle righe, il mio primo impulso (e potrebbero testimoniarlo alcuni amici che erano insieme a me ad Ascoli per un incontro con gli studenti) è stato di ribattere con queste precise parole: «No, onorevole, Lei si sbaglia: in quel momento avevamo ragione noi e tanto più considerando da quale cattedra si pretendesse Impartire la lezione». Purtroppo l’on. La Malfa non era lì e non mi era possibile dirgli a voce le cose che qui sto scrivendo, ben consapevole (anche nella più pacata prospettiva che ci viene dall’esser passato da allora mezzo secolo) delle delicate e rischiose implicazioni della mia risposta.

Si, avevamo ragione noi, nonostante le nostre divisa da «balilla» e da «avanguardisti», nonostante i nostri ridicoli fez e le nostre camicie nere indossate per obbligo. Certamente le tragiche esperienze degli anni successivi ci avrebbero insegnato a quali sciagurate conseguenze potevano condurre un male inteso sentimento della nazione o un patriottismo troppo esposto alle strumentalizzazioni, proprio per la esiguità dei suoi contenuti politici. Ma non sarà il caso di dimenticare che Io «scatto» dei ragazzi e dei giovani di allora (uno «scatto» che si poteva dire, in sé e indipendentemente dall’uso che il potere fascista poté farne e ne fece, di giusto orgoglio nazionale) fu della medesima natura che pochi anni più tardi avrebbe mobilitato molti di essi nelle file della Resistenza.

Potrà sembrare strano, ma è così: un grande sentimento popolare non può passare attraverso le crune d’ago delle troppe alchimie elitarie e dei troppi «distinguo» della routine politica; e ben era nel giusto il poeta Giacomo Noventa quando intorno al 1950 formulò quella geniale distinzione tra spirito dell’antifascismo e spirito della Resistenza, privilegiando quest’ultimo per la sua carica di positività. Significherà pure qualcosa il fatto che certe considerazioni siano suggerite proprio dagli avvenimenti di questi giorni, in cui il nostro Paese si è trovato a dover sperimentare sulla pelle della propria dignità la tentata applicazione di una teoria della sovranità limitata in versione non più breznevìana bensì atlantica.

Ma ancora più importante mi sembra che per la prima volta a 40 anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale (40 anni di forse troppo «leale» subordinazione a un potente alleato) si ritorni in Italia a pensare e a sentire in termini di autonomia e dignità della nazione collegati non a una vana e sciocca retorica patriottarda ma a precisi temi di azione e di prospettiva politica che, anche in campo internazionale e se opportunamente integrati e incoraggiati in un contesto di coerenti aperture e iniziative altrui, potrebbero essere suscettibili di impreveduti sviluppi. Quel che la gente (usiamo pure questa parola un po’ ambigua) prova o ha provato in questi giorni è un tipo di stato d’animo nuovo: un senso di partecipazione alla vicenda politica che a molti, forse ai più, rimaneva da anni sconosciuto, appannato dal velo di noia che (complici le stesse Centrali del potere) si stendeva da decenni sulle nostre passioni, restando il sentimento e il carattere dell’identità nazionale affidati quasi esclusiva mente al football e alle corse in automobile, all’italianlook e alla pizza napoletana, ai maccheroni e ai Inclusive tour.

Forse hanno sbagliato (e proprio dal loro punto di vista) gli americani: che ci usavano, sì, come una colonia, però con l’aria di non considerarci esattamente come tale o, insomma, facendo finta di niente… E invece, non contenti di ciò, hanno preteso di venircelo a dire chiaro e tondo, mettendo i puntini su tutte le possibili i: senza immaginare il favore che ci stavano facendo, su quante cose ci stavano riaprendo gli occhi e in quale imbarazzante situazione mettevano (costringendoli a spogliarsi d’ogni ritegno) i loro servizievoli compradores; e senza immaginare, indipendentemente da quella che potrà essere o sembrare la soluzione transitoria della crisi in atto, quali insperati orizzonti l’ukaze di Sigonella abbia aperto a un nuovo far politica in Italia, net Mediterraneo, in Europa. Cordiali saluti.

Giovanni Giudici



Immagine di copertina tratta da https://commons.wikimedia.org/

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Questo bellissimo saggio ci racconta come la cultura di guerra e di morte genera gli stessi mostri in tutto il Paese: pessimismo, obbedienza, passività, senso di sconfitta, conformismo, opportunismo, clientelismo. Figli di un dio minore, vittime e colpevoli allo stesso tempo dei propri mali. Politici e rappresentanti istituzionali fotocopia. Iene e sciacalli ai banchetti delle opere pubbliche e gattopardi perché cambi tutto purché non cambi nulla.

Lo scenario che ci delinea e ci offre queste pagine che seguiranno è certamente doloroso, tragico, inquietante, ma in questo suo coraggioso e generoso atto di denuncia traspare sempre lo smisurato amore per La Spezia, per il suo Golfo, il suo Mare. Pagine e immagini che feriscono il cuore ma in cui respiriamo ancora speranza ed utopia. Che un’altra città sia davvero ancora possibile, viva, libera, aperta, felice. Un laboratorio di Pace.

Antonio Mazzeo

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